Le mani nelle tasche dei pensionati

Le mani nelle tasche dei pensionati

29/01/2019



 

Accanto al progetto “quota 100”, fortemente voluto dall'ala leghista per facilitare l'uscita in anticipo dal lavoro, il governo Lega-5 Stelle ha messo nel mirino le cosiddette “pensioni d'oro”. Il paradosso è che il “governo del cambiamento” rischia di replicare la manovra ideata a suo tempo da Mario Monti e dall'esecutivo dei tanto detestati tecnici. Infatti l'idea allo studio sarebbe quella di introdurre nel 2019 un contributo di solidarietà sugli assegni pensionistici che superano i 4.500 euro netti mensili (circa 90mila euro lordi annui), modulato su diversi scaglioni come fece il governo Letta per il triennio 2014-2016. In più è circolata anche l'ipotesi (sembra rientrata) di un abbattimento del 25-50 per cento dell'adeguamento al costo della vita per le pensioni superiori ai 2.500 euro netti mensili.

L'assurdo è che, al di là degli aspetti tecnici e dei possibili rilievi costituzionali, l'ennesima sforbiciata alle pensioni cosiddette “d'oro” colpirebbe una categoria che, come si dice, “ha già dato” e che meriterebbe piuttosto una riduzione della pressione fiscale. “Da circa 20 anni sulle indicizzazioni delle pensioni ci sono stati molti interventi” spiega Stefano De Iacobis della Cisl Pensionati, “spesso contraddittori e con l'unico scopo di produrre risparmi di sistema e non finalizzati a sostenere lo stesso sistema previdenziale; in alcuni periodi le pensioni non hanno ricevuto alcuna perequazione, mentre in altri le prestazioni hanno subíto differenti indicizzazioni che hanno tuttavia prodotto una riduzione strutturale e non più recuperabile nel valore delle prestazioni”.

Risultato: a causa delle norme che si sono susseguite in questi ultimi 20 anni, i pensionati hanno perso quasi il 20-30 per cento del loro potere d'acquisto, anche chi ha versato tutti i contributi. Gli ultimi interventi sono stati quelli del governo Monti con il blocco della perequazione per le pensioni superiori a 1.443 euro lordi mensili negli anni 2012-2013 e poi quello del governo Letta che prevede un'indicizzazione piena all'inflazione solo per i trattamenti inferiori a 1.522 euro lordi mensili.

Per entrare nel dettaglio, grazie all'aiuto di De Iacobis, con il meccanismo di rivalutazione Letta, nel 2018 solo le pensioni d'importo fino a 3 volte il trattamento minimo (ossia fino a 1.522,26 euro lordi mensili) sono state rivalutate al 100 per cento dell'inflazione (stimata in via provvisoria dell'1,1 per cento); quelle d'importo superiore a 3 e sino a 4 volte il trattamento minimo (ossia fino a 2.029,68 euro lordi mensili) si sono viste riconoscere il 95 per cento del predetto adeguamento; per quelle di importo superiore a 4 e sino a 5 volte il minimo (ossia fino a 2.537,1 euro lordi mensili) l'adeguamento è stato pari al 75 per cento, mentre l'adeguamento è sceso al 50 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a 5 volte il minimo ed entro le 6 volte (ossia per pensioni fino a 3.044,52 euro lordi mensili) e infine al 45 per cento per i trattamenti superiori a 6 volte il trattamento minimo Inps.

“In sostanza” sottolinea De Iacobis, “in base al meccanismo di rivalutazione Letta, per una pensione di mille euro al mese, nel 2018, l'aumento è stato pari a circa 110 euro l'anno, mentre per le pensioni di importo superiore le sei volte il minimo Inps (parliamo di circa 3.050 euro lordi e quindi di circa duemila netti, non proprio una pensione ‘d'oro') la rivalutazione agendo per la fascia complessiva di importo, è stata riconosciuta al 45 per cento”.

Fin qui la continua azione di ‘tosatura' delle pensioni, lenta e silenziosa ma molto dannosa. Ma oltre a vedere il proprio tenore di vita erodersi con l'inflazione (che per fortuna per ora è bassa) i pensionati subiscono anche una tassazione più pesante rispetto ai lavoratori: a fronte di un reddito di 15mila euro annui, se questo è uno stipendio da lavoro dipendente l'Irpef è pari a 1.886 euro mentre se è una pensione l'imposta sale a 2.153 euro. Un effetto paradossale, provocato dalla mancanza, per i pensionati, della detrazione da lavoro dipendente. Cornuti e mazziati.

E veniamo al terzo punto. Negli altri Paesi europei i pensionati vengono tassati molto di meno. Qui ci viene di nuovo in soccorso la Cisl con una tabellina da cui si ricava che, a fronte di una pensione annua di 19.789 euro lordi (tre volte il minimo), in Italia si pagano 4 mila euro di Irpef (il 20 per cento) mentre in Francia se ne versano mille (il 5 per cento) e in Germania appena 39 euro, lo 0,2 per cento! Quindi se è vero che la previdenza italiana è generosa, è altrettanto vero che lo Stato si riprende con le tasse una bella fetta del malloppo.

Non a caso ci sono molti pensionati italiani che emigrano in Paesi con una bassa tassazione, in alcuni casi proposta esclusivamente a chi percepisce un reddito previdenziale: è il caso per esempio del Portogallo, che offre un'esenzione totale per dieci anni ai pensionati stranieri che si trasferiscono laggiù. Ma aliquote più basse di quelle italiane sono garantite anche alle Canarie, in Tunisia, nei Paesi dell'Est.

Infine c'è l'aspetto etico: che la pensione sia alta o bassa, è giusto che un reddito su cui una persona ha costruito il proprio progetto di vita dopo il lavoro sia ridotto unilateralmente dallo Stato? C'è chi si è fatto i suoi calcoli e magari ha accettato un'uscita anticipata da un'azienda contando di avere un certo reddito per il resto della sua esistenza: perché un Matteo Salvini o un Luigi Di Maio possono decidere di punto e in bianco che quel reddito va tagliato? È un intervento retroattivo che colpisce una sorta di contratto tra l'ex lavoratore e lo Stato. E chi decide se un trattamento è troppo alto? Siamo tornati ai tempi della Rivoluzione francese e alla persecuzione dei nobili?

Lega e Movimento 5 Stelle dovrebbero rifletterci bene. Per incassare cifre tutto sommato modeste, il governo rischia di far arrabbiare un bel po' di italiani. Ai quali si aggiungono quei pensionati, come tanti artigiani, che dopo aver pagato i contributi prendono una pensione di 780 euro netti al mese e ora vedono lo stesso ammontare ‘regalato', grazie al reddito di cittadinanza, a chi di contributi non ne ha versato neanche l'ombra.

Pensino piuttosto ad allinearci agli altri Paesi europei: meno tasse sui pensionati e spingere i giovani lavoratori ad aumentare gli investimenti in fondi pensione, che a loro volta andrebbero alleggeriti dal peso fiscale.

 

Guido Fontanelli